Obesità. Percezione di malattia e scelte di salute

Obesità. Percezione di malattia e scelte di salute

A cura della d.ssa Stefania Comai*, psicologa dello sviluppo e dell’educazione con un Master in Psicobiologia della nutrizione e del comportamento alimentare

 

Il vissuto personale del paziente nel rapporto di cura

La malattia è qualcosa di più e di diverso da una semplice diagnosi clinica. La malattia può essere la vita intera che cambia forma, può diventare un modo di pensare o di esistere, può rappresentare una rottura che richiede un grande sforzo di riorganizzazione. Ma la malattia può essere anche una presenza apparentemente invisibile o silenziosa, che si esprime in valori numerici alterati e prospetta futuri rischi e complicanze. Per una persona con obesità, questa situazione può non essere vissuta come malattia ma piuttosto come una condizione fisica che definisce, ingabbia, tutela, mortifica, e molto altro.

 

La percezione della malattia e le sue conseguenze

Il modo in cui si percepisce e ci si rappresenta la malattia, propria o di una persona cara, può avere un impatto significativo sulle scelte e i comportamenti messi in atto per farvi fronte; può incidere su aspetti fondamentali come le scelte di prevenzione, il ricorso ai servizi sanitari, l’aderenza alle cure, l’esito dei trattamenti e in generale la qualità della vita. Un approccio interdisciplinare alla gestione di malattie croniche come obesità e diabete consente di valutare l’impatto di fattori psicologici, come il vissuto soggettivo di malattia, ed è opportuno al fine di programmare interventi che siano tanto clinicamente adeguati quanti efficaci e sostenibili per il paziente.

 

Cosa vedono i miei occhi: il vissuto del paziente

Nella letteratura scientifica si parla di percezione di malattia o illness perception per indicare il modo soggettivo con cui una persona vive e si rappresenta un’esperienza di malattia: in altre parole, che cosa significa per me soffrire di diabete o di obesità?

Dal momento della diagnosi per esempio di obesità o diabete tipo 2 o dalla comparsa dei primi sintomi, le persone cominciano spontaneamente a formare impressioni, conoscenze o credenze sul proprio stato, ricavando risposte da diverse fonti o traendo spunto dalle esperienze proprie o altrui. Questi fattori compongono in modo spontaneo nella persona un’idea generale di cosa significhi convivere con l’obesità o con il diabete tutti i giorni, quali ne siano le cause, quali modalità di intervento risultino efficaci e quali sembrino personalmente meno utili.

A prescindere da quello che una malattia rappresenta e comporta dal punto di vista strettamente clinico, aspetti che in genere è il medico a portare nella relazione di cura, è come il paziente soggettivamente la vive – l’obesità – che condiziona la sua disponibilità a cambiare abitudini di vita, intraprendere un percorso di cura, aderire con fiducia alle indicazioni che riceve. Più nello specifico, quello che una persona con obesità conosce, pensa, crede rispetto alla propria condizioneinfluenza il modo in cui emotivamente la affronta, la fiducia nella possibilità di vivere meglio, la motivazione e la costanza nel suo impegno di cura (adesione al trattamento).

Ad oggi il vissuto soggettivo di malattia raramente trova spazio nella comunicazione medico-paziente, e questo va spesso a discapito non solo della qualità della relazione di cura ma anche della sua efficacia.

 

Al di là del camice: ampliare lo sguardo del medico clinico

Mettersi nei panni del paziente non rappresenta un semplice gesto di empatia, anche se capacità di ascolto e sospensione del giudizio non dovrebbero essere prerogativa delle sole professioni psicologiche.

Conoscere il punto di vista del paziente rispetto alla sua condizione può in realtà fornire informazioni utili per instaurare un rapporto di cura efficace, favorire un coinvolgimento attivo della persona nel trattamento (adesione alla cura) e prevenire un abbandono precoce. Non è un caso, d’altra parte, che siano stati concepiti strumenti di valutazione con questo specifico obiettivo (per es il Questionario della Percezione di Malattia, Illness Perception Questionnaire – IPQ).

 

Nel caso di una persona con obesità può essere utile al clinico approfondire e al paziente riferire:

IDEE DEL PAZIENTE SULL’OBESITÀ

  • Cosa sai dell’obesità? Come la definisci?
  • La riconosci come una malattia o come una condizione fisica?
  • Ti ritieni una persona malata?
  • Quali effetti o sintomi attribuisci alla tua condizione?

 

CREDENZE SULLE CAUSE

  • A quali ragioni attribuisci il tuo stato di obesità?
  • Come ti spieghi la difficoltà nel perdere peso?
  • E la velocità nel recuperare il perso dopo un iniziale dimagrimento?

 

IDEE SULLA DURATA E L’EVOLUZIONE NEL TEMPO

  • Quanto tempo pensi possa servire per raggiungere un peso più sano?
  • Come immagini che possa evolvere il tuo stato di salute nel lungo periodo?
  • Ti prospetti un intervento temporaneo (per es. dieta ipocalorica) o una modificazione duratura delle proprie abitudini di vita?

 

GESTIONE DELLA MALATTIA ED EFFICACIA DEL TRATTAMENTO

  • Quali obiettivi e aspettative ti proponi?
  • Quali obiettivi ed aspettative ritieni che abbia l’equipe o il medico curante?
  • Quanto pensi di poter effettivamente modificare il tuo comportamento?
  • Come valuti il trattamento che hai intrapreso?

 

CONSEGUENZE

  • Quale impatto ritieni che abbia l’obesità nella tua vita?
  • Quali possibili conseguenze ti immagina per il tuo futuro?
  • Quali sono i principali rischi che temi correlati al tuo eccesso di peso?

 

Nell’ottica di un intervento interdisciplinare, la raccolta di queste informazioni può essere parte del lavoro di anamnesi condotto dallo psicologo-psicoterapeuta. Di fatto, nella pratica clinica di un colloquio medico-paziente in realtà molti di questi aspetti già emergono implicitamente, ma di rado trovano tempo o interesse sufficiente per essere approfonditi. Perché potrebbe valere la pena farlo?

 

Percezione di malattia: perché è importante?

La psicologia ha costruito diversi modelli nel tentativo di spiegare cosa porti le persone a modificare o meno le proprie abitudini, usufruire o rinunciare alla possibilità di fare screening di prevenzione, presentarsi o evitare una visita di controllo. L’esperienza mostra come le scelte ed i comportamenti anche a tavola non siano sempre dettati da una valutazione puramente logica e razionale: è il vissuto personale del paziente – cosa pensi, cosa credi, cosa senti – che detta legge e spinge (o meno) ad agire. Vediamo alcuni esempi.

 

Io soffro di obesità, non sono l’obesità

Chi riconosce l’obesità come malattia può essere più incline a prestarle adeguata attenzione e a rivolgersi a figure specialistiche per ridurre i rischi correlati. Inoltre pensare l’obesità come malattia, per quanto possa suscitare per alcuni anche un senso di sfiducia o impotenza, può aiutare la persona a non identificarsi con la propria condizione psico-fisica, con la forma o il peso del proprio corpo.

Al contrario, chi è o si sente obeso, tanto più se dalla nascita, può vivere l’obesità come una condizione che gli appartiene, uno stato immodificabile, che definisce la sua persona e troppo spesso anche il suo valore.

Per quanto possa sembrare un mero gioco di parole, quindi, pensare all’obesità come qualcosa “che si ha” piuttosto che qualcosa “che si è” può fare differenza nell’approccio verso la propria condizione.

 

Sintomi reali, attribuiti e malattie silenziose

Al di là delle diagnosi e delle raccomandazioni mediche, la percezione del rischio e il bisogno di cura può emergere talvolta solo alla comparsa dei sintomi più invalidanti (e talvolta neanche in questo caso). Questo può comportare un ritardo significativo nell’intervento e una generale sottovalutazione delle complicanze. Chi vive l’eccesso di peso solo o soprattutto come una caratteristica fisico-estetica, rischia di “normalizzare” (quindi trascurare) aspetti quali affanno frequente, sudorazione eccessiva, disturbi del sonno, dolori alla schiena, anche o ginocchia, rischi per il cuore e i polmoni, etc. Altrettanto sottovalutate sono le limitazioni funzionali che l’obesità comporta nello svolgere le normali attività quotidiane. Se il paziente prende coscienza della propria malattia solo in funzione dei sintomi che esprime, l’alterazione di valori che non  hanno un evidente riscontro  (colesterolo, trigliceridi, glicemia, pressione) può portarlo a seguire la terapia in modo più passivo e discontinuo, tanto più se la persona non ne percepisce un chiaro beneficio.

 

Cause dell’obesità

L’obesità è una malattia multifattoriale, nella cui genesi si intrecciano diversi fattori: genetici, ormonali, psicologici, socio-culturali. La persona con obesità può dare diverse spiegazioni al proprio peso ed alle sue oscillazioni, senza tenere conto del ruolo delle diverse componenti che lo determinano (liquidi, massa magra, massa grassa etc). Il tipo di spiegazione può generare modalità diverse di intervenire sul proprio peso e di reagire ai suoi cambiamenti. Ritenere ad esempio che il peso sia l’effetto diretto di una disfunzione ormonale o di uno squilibrio metabolico può motivare poco ad intraprendere un intervento nutrizionale oppure può orientare verso uno specifico regime dietetico che si ritiene (troppo spesso solo per sentito dire o per proprio elaborazione personale senza reali conoscenze!!)  possa agire su quella causa specifica. Oppure ancora, pensare che uno specifico nutriente (in genere grassi o carboidrati) faccia ingrassare può indurre verso uno stile alimentare monotono, carente o sbilanciato.

 

Fattore tempo e aspettative

La persona che si rivolge al medico, a un’ equipe di un centro per la cura dell’obesità e/o che affronta un percorso di chirurgia bariatrica porta sempre con sé delle aspettative: quanto peso desideri perdere? Come ti immagini al termine del percorso di cura? Quanto tempo conti di investire nel trattamento? Se viene meno un’attenta definizione degli obiettivi e delle tempistiche, come anche un monitoraggio dell’andamento durante il percorso, è più probabile andare incontro a un insuccesso per diverse ragioni: per esempio, la persona non riconosce cambiamenti significativi nel peso, sperimenta effetti collaterali imprevisti, incontra difficoltà nel seguire le indicazioni che generano sfiducia nelle proprie possibilità e portano alla rinuncia.

Prendere coscienza di come percepisci e vivi la tua condizione di obesità, ti aiuta perciò a comprendere e prevedere le scelte di cura che puoi intraprendere (o trascurare). In alcuni ambiti clinici, per esempio nel campo delle malattie cardiovascolari, la ricerca ha evidenziato l’impatto significativo che la percezione di malattia da parte del paziente ha sull’esito terapeutico. Nel contesto della malattia cronica, come obesità e diabete, dove risulta sempre più opportuna l’adozione di un approccio interdisciplinare, è importante destinare spazio alla comprensione del tuo vissuto personale da parte del team a partire dalla raccolta della tua storia clinica (anamnesi).Questo può fornire informazioni utili a definire un piano di intervento sostenibile e condiviso, nonché a costruire una relazione medico-paziente un po’ più vicina ad un’ideale di alleanza terapeutica, che renderà il trattamento più efficace e favorirà l’aderenza alla cura.

 

References

– Rivera E et al. A systematic review of illness representation clusters in chronic conditions. Res Nurs Health 2020 Jun; 43(3)

– Surgenor LJ et al – Psychometric characteristics of the Revised Illness Perception Questionnaire (IPQ-R) in People Undergoing Weight Loss SurgeryJ Clin Psychol Med Settings 2020 Mar;27(1)

– Mathieu et al – Illness perception in overweight and obesity and impact on bio-funcional age. Arch Gynecol Obstet 2018 Aug; 298(2)

– Petrie KJ & Weinman J – Why illness perception matterClin Med (2006) Nov-Dec; 6(6)

 

 

 

 

* La d.ssa Stefania Comai è psicologa dello sviluppo e dell’educazione con un Master in Psicobiologia della nutrizione e del comportamento alimentare (Università di Tor Vergata, Campus Bio-Medico di Roma). Ha conseguito una seconda laura specialistica in Filosofia morale e bioetica presso l’Università degli Studi di Bologna. Si è formata nell’ambito dell’intervento psicologico in diabetologia e in chirurgia bariatrica. Ha intrapreso la specializzazione in psicoterapia ad indirizzo Familiare Relazionale presso l’Istituto di Terapia Familiare di Bologna. Segue inoltre il percorso di promotore delle life skills presso l’Associazione Life Skills Italia. Esercita la libera professione a Bologna.
Per maggiori informazioni: https://www.stefaniacomai.com/

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