“Dio solo sa quante ne abbiamo dovute sopportare nel corso degli anni, piccole e grandi.”
Marina Biglia, Presidente in carica dell’Associazione Insieme Amici Obesi No Profit
volte è solo la commessa che nel negozio ci avvisa che le spiace tanto, ma per la nostra taglia non ha davvero niente, a parte le tende del locale. Altre volte è la certezza di non riuscire ad entrare nella sedia di quel bar o di quel cinema. O forse temere di non riuscire a uscirne…
Ma, a volte sono le parole che ci vengono dette: con superficialità, con schifo o con una buona dose di compassione.
Ricordo un episodio, di molti anni fa: peso circa 130 kg e tento di confondermi, come sempre, con l’ambiente che mi circonda, come fossi un pezzo del treno su cui sto viaggiando. Ma la ragazza di fronte parlotta col suo fidanzato e gli racconta un qualcosa usando più volte la parola “ cicciona”, riferendosi a una ragazza loro conoscente.
A un certo punto alza gli occhi e mi nota, e allora imbarazzatissima dice al tipo: “Oddio non mi ero accorta di averne una davanti…”. Forse pensava che io fossi sorda, o semplicemente non pensava.
Ed episodi come questi, ma anche molto più dolorosi, li ha ogni obeso nel suo curriculum, come marchi indelebili sulla pelle.
Ma, molte volte, l’umiliazione scatta anche senza bisogno di parole o di commenti. Ci autoumiliamo.
Immaginiamo di sentir ridere dei ragazzi, proprio nel preciso momento in cui stiamo passando noi, con i nostri corpi ingombranti. Cosa pensiamo, istantaneamente? Pensiamo che ridano di noi. E magari poi ci accorgiamo che stanno davvero ridendo di tutt’altro. Inutile: il primo dito puntato addosso, è il nostro…
E poi ci sono umiliazioni che derivano da limitazioni oggettive. E lì è davvero una lotta disperata. Oppure, molte volte, una visita dal medico ci fa rendere conto della differenza fra un obeso ed una persona “normale”.
Alcuni di noi sono arrivati a fare parte di un mondo, prima di allora sconosciuto: il mondo dei grandi obesi. Già la sola definizione, a volte, fa rimbalzare sulla sedia: obesi patologici, obesi gravi, grossi obesi… A volte un più gentile “obesità di terzo grado”.
I passi diventano incerti, instabili. Si diventa goffi, assurdi, pantagruelici.
Non sono solo gli sguardi schifati della gente a ferire, o i vestiti stretti in cui pare di esplodere.
Sono le umiliazioni, quelle così intime da non poter essere confessate, a volte neppure dietro alla protezione di uno schermo del computer.
L’umiliazione di non riuscire a lavarsi, di non potersi tagliare le unghie dei piedi da soli, di sudare copiosamente anche facendo quasi nulla, di non riuscire a compiere molti dei mille gesti della banalità quotidiana.
È un dolore che ti spacca in mille pezzettini, umiliazioni soffocate nel cibo, come sempre, nel solito girotondo senza fine.
Ma c’è anche un’umiliazione molto più sottile, molto più infingarda: è l’umiliazione dell’accontentarsi.
Ci si accontenta di troppe cose; ci si accontenta delle briciole di affetto che arrivano, ci si accontenta di storie sbagliate perché si ha la certezza di non poter meritare nulla di meglio.
Ci si accontenta di un lavoro umiliante, di una vita sociale da tappezzeria.
Ci si accontenta di sognare un corpo che potremmo sentire veramente nostro.
Perché, di fondo, siamo convinti di non meritarci nulla di meglio. No, noi non possiamo meritarci di essere felici.
E chissà perché e chissà come questo meccanismo si innesca in noi.
Ma capita sempre, capita ad ogni obeso. Ma, in fondo, non è vero… Ma c’è anche un’umiliazione molto più sottile, molto più infingarda: è l’umiliazione dell’accontentarsi.
Marina Biglia
Presidente in carica dell’Associazione Insieme Amici Obesi No Profit