Due ricercatori della Cornell University, di Itaca, New York, hanno pubblicato una lettera sulla rivista Jama Internal Medicine, in cui riferiscono che, in base a un loro studio, chi non mangia da diverse ore è più favorevole all’acquisto di cibi calorici.
Brian Wansink e Aner Tal, questi i nomi dei ricercatori, hanno osservato quali tipi di alimenti acquistavano 68 volontari, dopo almeno cinque ore dal loro ultimo pasto; sono stati anche esaminati gli acquisti alimentari fatti da altre 82 persone in momenti della giornata in cui era probabile che avessero fame oppure che fossero sazi: in tutti e due i casi, i soggetti che avevano fame sono risultati maggiormente attratti dai cibi calorici.
Spiega Wansink: «Il digiuno, intenzionale o meno, è un fenomeno comune, perché autoimposto, come nelle diete o per ragioni religiose, oppure può essere ordinato dal medico, per esempio prima di un intervento chirurgico; in casi estremi può essere del tutto involontario, come in caso di calamità naturali o in condizioni di povertà. È stato dimostrato che il digiuno aumenta la reattività del cervello a certi cibi rispetto ad altri; in particolare, i digiunanti cui venivano mostrati alimenti calorici mostravano una maggiore attivazione delle aree cerebrali associate al concetto di premio: lo striato ventrale, l’amigdala, l’insula anteriore, quella mediale e la corteccia frontale e laterale. Ne consegue che se la privazione di cibo aumenta l’attrazione per gli alimenti calorici, può anche darsi che chi digiuna, magari solo per brevi periodi, li preferisca nei suoi acquisti alimentari. E questo coinvolgerebbe una gran massa di persone che, a causa degli orari di lavoro serrati, spesso saltano un pasto; anche una breve privazione alimentare, infatti, può influenzare le scelte alimentari, aumentando l’introito calorico, e, data la quantità di persone che digiuna a breve termine, questo ha importanti implicazioni per la salute».
Fonte
Brian Wansink, Aner Tal – Fattening Fasting: Hungry Grocery Shoppers Buy More Calories, Not More Food. Jama Internal Medicine 2013;173(8):1-2
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