Dott.ssa Rossella Bossa, specialista in psicoterapia comportamentale-cognitiva 

 

Il concetto di immagine corporea non è recente: neurologi e psicologi se ne occupano da decenni.

Nel 1950, il neuropsichiatra Schilder ne diede la prima definizione, considerata per alcuni aspetti valida ancora oggi: “L’immagine del nostro corpo che ci formiamo nella mente”, ovvero il modo in cui il nostro corpo ci appare.. Noi riceviamo delle sensazioni, vediamo parti della superficie del nostro corpo, abbiamo impressioni tattili, termiche e dolorose, sensazioni indicanti le deformazioni dei muscoli, sensazioni provenienti dalle innervazioni muscolari e sensazioni di origine viscerale.. Ma al di là di tutto questo vi è l’esperienza immediata dell’esistenza di una unità corporea che, se è vero che viene percepita, è d’altra parte qualcosa di più di una percezione…”

Più recentemente, lo psicologo Slade (1994) ha confermato l’importanza della componente cognitivo-emozionale, oltre a quella percettiva, nella rappresentazione dell’immagine corporea:  “L’immagine che abbiamo nella nostra mente della forma, dimensione, taglia del nostro corpo e i sentimenti che proviamo rispetto a queste caratteristiche e rispetto alle singole parti del nostro corpo”.

 

L’immagine corporea è quindi un costrutto multidimensionale complesso, costituito da un intreccio di elementi cognitivi, emozionali e comportamentali, influenzato da fattori sociali e culturali. Il motivo principale del disagio e dell’insoddisfazione che si provano rispetto alla propria immagine è dovuto alla discrepanza tra l’immagine corporea percepita e quella desiderata, ovvero tra il nostro sé reale e il nostro sé ideale, troppo spesso influenzato dai modelli sociali proposti.
Ciò che si verifica non è quindi solo una distorsione percettiva rispetto al reale, bensì una continua valutazione dell’immagine mentale, un flusso di emozioni e pensieri che portano ad associare la propria apparenza al valore personale, condizionando l’autostima.

La relazione tra immagine corporea, pensieri ed emozioni è a doppia via, in quanto anche i nostri stati d’animo possono influire sulla rappresentazione mentale del nostro corpo. Se ci sentiamo tristi, falliti o delusi, sarà più probabile considerare “deludente” anche il nostro corpo, tendiamo a diventare ipercritici ritenendolo causa dei nostri insuccessi (“mi respingono perché sono brutta”… “non mi hanno assunto perché sono obeso”…).

La persona obesa ha in genere un’immagine corporea negativa, per questo è più facilmente ansiosa e imbarazzata in diverse situazioni sociali, crede che il suo aspetto riveli la sua inadeguatezza personale, contribuendo all’idea di essere una persona senza forza di volontà e senza valore.
Le persone obese focalizzano la loro attenzione in particolare sulla dimensione del loro corpo, immaginando che “una vita da magri” possa essere pienamente soddisfacente, la risoluzione di tutti i problemi, la realizzazione di un sogno.

 

La sicurezza e la stima di sé

E’ importante invece non trascurare gli elementi emozionali profondi che sottendono l’insoddisfazione di sé e che condizionano l’immagine corporea, in quanto questi non si possono asportare chirurgicamente. Il rischio è quello di continuare a comportarsi e pensare “da grassi”, anche dopo avere raggiunto la condizione di normopeso, con tutte le possibili e note conseguenze a livello sociale e relazionale. Forse per comprendere meglio questo problema può essere d’aiuto ricordare che l’insoddisfazione per il proprio corpo è un fenomeno molto diffuso, che si estende oltre i confini della dimensione corporea e del peso. Basti pensare a quante persone ricorrono al chirurgo plastico per modificare naso, labbra, seno, glutei. In fondo un naso “con la gobba” non mette a rischio la salute, tuttavia può condizionare profondamente l’immagine di sé, l’autostima e la sicurezza nella relazione con gli altri.
Questo dimostra come l’essere umano sia più propenso a cambiare l’esterno piuttosto che l’interno, per sentirsi più sicuro di essere accettato.

E’ questa la vera chiave del problema, la sicurezza e la stima di sé. Se ci sentiamo sicuri e abbiamo stima di noi stessi, anche il nostro comportamento sarà diverso, sarà più facile ottenere stima e rispetto da parte degli altri. Le conferme sociali ci faranno sentire ancora meglio, creando quindi un circolo virtuoso che mantiene elevata la nostra autostima e un’immagine positiva di noi stessi.

 

L‘immagine corporea può influenzare il benessere psicologico e la qualità di vita

Ecco perché può essere utile seguire un percorso psicologico che aiuti a cambiare l’immagine interiore, parallelamente a un intervento “sull’involucro”, in modo che, dopo aver raggiunto il normopeso, si possa veramente ricominciare una nuova vita.

 

Immagine corporea e differenze di genere

Le donne sono più inclini degli uomini nell’esperire una preoccupazione eccessiva per l’aspetto fisico. L’esagerata preoccupazione per il peso nelle donne è riconducibile soprattutto all’idealizzazione della magrezza come attributo cruciale della femminilità. Dietro questo atteggiamento si nasconde l’errore grossolano di identificare la magrezza con la bellezza e con la salute. La magrezza non si identifica con la bellezza, ci sono infatti donne magre che non rispondono ai canoni della bellezza e che non sono attraenti, mentre la salute, in particolare quella riproduttiva, richiede un peso adeguato, che non è paragonabile a quello delle modelle.

Negli uomini la preoccupazione per il proprio aspetto fisico è in aumento, ma è vissuta in modo più complesso rispetto alle donne. Negli uomini l’ideale di mascolinità non si associa semplicemente al “peso forma”, ma anche allo sviluppo della massa muscolare, simbolo di forza, virilità e sensualità. Nella società moderna, dove le donne sono diventate più competitive in ambito professionale e più esigenti nella scelta del compagno, la ricerca della mascolinità rappresenta un modo per preservare il ruolo maschile.

 

 

References

– Shilder P – Immagine di sé e schema corporeo. F Angeli Ed, Milano 1973

– Slade PD – What is body image? Behavior Research and Therapy,  32, 497-502, 1994

Vittoria Majocchi

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