“ Quelli che scrivevano qui e non scrivono più
quelli che si vergognano del loro ‘fallimento’
quelli che si sentono arrivati
quelli che arrancano e adesso hanno in mano un biscotto
e lo mangiano perché il figlio lo ha lasciato
quelli che si sentono soli e non capiti
quelli che dicono domani è un altro giorno, e lo dicono ogni domani
quelli che si odiano
quelli che un po’ hanno imparato ad amarsi
quelli che non si fidano e non si appoggiano
quelli che vorrebbero farlo e non sanno come
quelli che piangono e quelli che ridono troppo
Io vi vorrei tutti qui. Senza paure, senza pretese,
e con tutta l’umiltà di cui abbiamo bisogno.
Io vorrei vedervi tornare”
Marina Biglia, Presidente in carica dell’Associazione Insieme Amici Obesi No Profit
Ho cercato di riassumere in poche righe il senso della fuga, dell’allontanarsi e del fallimento.
Come in ogni locale che si rispetti, sappiamo che gli avventori cambiano spesso, ma quelli che sono gli abituali si ritrovano a chiedersi dove siano spariti i loro amici che non si fanno più vivi, cosa stiano facendo e, soprattutto, cosa sia loro successo.
E questa discussione nasce sul filo di una sottile malinconia, dettata dalla lontananza dalle persone che si sono incontrate e a volte anche conosciute nel mondo reale.
Perché ci si allontana? Ci si allontana da questo gruppo perché ci si sente finalmente guariti, perché si ha giustamente voglia di prendere le distanze dalla malattia che ci ha stritolati per anni e in fondo ci ha un po’ relegati nella culla calda, che profuma un po’ di ghetto, della comprensione di altri malati come noi. Ma a volte ci si allontana perché si è incapaci di affrontare la dura sensazione di aver fallito, di aver deluso chi ci sta vicino o perché si sta troppo male per avere qualsiasi tipo di reazione emotiva che non sia la fuga.
La fuga non è solo dal locale virtuale, ma è una fuga globale. Si cerca di mollare tutto, possibilmente lanciandosi nell’alimentazione più incontrollata, partendo dal più totale rifiuto di noi stessi.
Alcuni riescono a vedere questo momento come un momento positivo, come un “fallimento amore mio, meno male che mi hai aperto gli occhi”.
Ma la maggior parte di noi legge tutto questo come uno smacco enorme, specie se il momento è stato preceduto da mille e mille ottimi propositi, ottime partenze e, peggio ancora, anche da alcuni buoni risultati.
Nell’ultimo caso poi subentra anche il fattore vergogna, sentimento che prova chi ha fallito, ma purtroppo si insinua anche un altro elemento negativo: la soddisfazione, più o meno conscia, di chi è ancora in alto mare. Accade che in chi rimane indietro nel processo di guarigione, costretto ad arrancare guardando stupito i successi altrui, scatti una sorta di banale ma innegabile invidia. Un’invidia farcita dalla paura del non potercela fare, condita dal sentire ancora una volta il dolore di chi è rimasto al palo.
Di fondo non siamo pronti a trovarci a essere gli ultimi a non essere riusciti a combattere la malattia.
Molti ricorrono a diete assurde, a nuove folli tecniche sperimentali, a “stregoni”, a farmaci miracolosi, allettati anche da pubblicità ingannevoli, che appaiono in ogni dove: in televisione, sul web, sulle pagine patinate delle riviste, in metropolitana, ovunque cadano gli occhi. Alla fine ci si crede e si pensa: “Basta poco. Bastano quelle ‘pillolette’ da 200 euro a scatola e perderò 17 kg in un mese”. Pubblicità illusoria, certo.
Ma quanti sono gli obesi che possono affermare di non essersi buttati a pesce? Eppure, c’è sempre una frase, scritta a caratteri piccolissimi, sulle confezioni di quelle pastiglie. Cosa dice? Per farla breve, avverte che se non ci si attiene a un regime alimentare corretto e ad un’adeguata attività fisica, si resta grassi uguale! Non servono a nulla.
E invece no. Servono eccome. Servono a far ripiegare, ancor di più, le persone su se stesse, a convincerle di essere di fronte all’ennesimo fallimento, proprio quando si era certi di aver trovato la via d’uscita, la salvezza. Del resto, per gli obesi, il fallimento è cosa nota, basti pensare a quel mese di alimentazione perfetta, al quale fa seguito un giorno di follia che rovina tutto. E invece di dire: “Amen, è stato solo un episodio”, ci si dichiara vinti. E quell’errore di un momento, quel maledetto giorno di abbuffata, diventa solo il primo di tanti giorni di alimentazione incontrollata e incontrollabile. Non ci sono vie di mezzo. Impossibile pensare che si tratti semplicemente di uno scivolone. No, non ci si crede e non ci si perdona. Per un unico episodio si diventa perdenti e, in quanto tali, perché mai si dovrebbe lottare? Tanto vale ingurgitare il mondo: la battaglia persa ha irrimediabilmente compromesso la guerra. E, di nuovo, dando cibo al corpo, si alimentano vergogne e paure: proprio come nel caso di Laura, una dolcissima amica.
Vorrei raccontare io la sua storia, perché lei non lo farebbe mai, raccontarla come fosse una dedica, raccontarla come un atto d’amore. Sperando, con la forza che solo i sognatori hanno dentro di sé, che decida di voler vivere:
«Conobbi Laura nel 2006. La ricordo così: bella, solare e piena di gioia adolescenziale mai esplosa. Cantava a squarciagola “tanti auguri” e scuoteva il caschetto castano, per fare il verso alla Carrà. E rideva, rideva, quanto rideva… Allora pesava 52 chili e girava con in tasca una foto di quando ne pesava più di 100. La ricordo, innervosita e contemporaneamente gongolante, ogni volta che qualcuno le diceva: “Ma non puoi essere tu!!” Godeva nel mostrare quella foto, ormai spiegazzata e sbiadita. Sorrideva fiera e felice; era la Barbie di se stessa.
Laura aveva sconfitto l’obesità, era uscita dal tunnel del grasso e stava chiedendo alla vita tutto quella che la vita fino ad allora le aveva rifiutato.
O molto più semplicemente quello che lei stessa si era imposta di non vivere.
Chiedeva amore. Amore incondizionato, amore che andasse a ricoprire l’abisso di dolore che per oltre 40 anni l’aveva ricoperta come una fredda giacca.
Non sapeva che si potesse di nuovo ridere, cantare in coro, sentirsi dire: “Quanto sei bella…”.
E che miele erano tutte queste dolcezze? Ogni giorno una scoperta, ogni giorno amare qualcosa di nuovo, ogni giorno vedere il mondo con occhi un po’ rosa.
Tornare a vivere. Tornare ad annusare l’aria. Ma è pur vero che si dimagrisce nel corpo, ma non si riesce davvero a dimagrire nella testa o, comunque, sicuramente non alla stessa velocità.
La nostra testa continua a pensare di dover acquistare sempre abiti taglia 54, anche se si indossa la 42, di doversi sedere su un divano, per paura di incastrarsi ancora nelle sedie.
È dura, è una lotta durissima, anche quando ci si sente arrivati. Perché in realtà si è solo arrivati ad una riconquista fisica, non ad una riconquista di noi stessi, della nostra essenza e della nostra anima.
Il dolore è rimasto li. Perfettamente al suo posto. Scavare fa tanto male, lasciamo che sedimenti da solo.
Laura ingrassa di un chilo, poi di due, di tre, ma dentro di sé SA che ce la farà ancora, ha perso oltre 50 chili, cosa vuoi che siano 3? SA che ce la farà ancora, SA che quell’energia che l0ha invasa fino a ieri è sempre lì, forte, decisa e coraggiosa.
E lì il primo trauma: quel SA è una lama nel petto. È un urlo agghiacciante, perché in realtà Sa che quello è il primo passo verso la catastrofe.
Perché Laura non ha strumenti per reagire, conosce solo la paura, la paura che ci uccide. La paura di tornare obesi.
È finalmente diventata magra, quello che sognava, il suo solo e unico obiettivo, dall’alba al tramonto, era quello di dimagrire. Ora lo ha raggiunto, ha avuto l’acclamazione popolare. E adesso? Che obiettivi le rimangono?
Il buio.
Ora, a distanza di 3 anni, i chili in eccesso sono diventati, di nuovo, più di 50. Laura è sempre bella, il suo sorriso è sempre lì, nascosto nel grasso. Nascosto nella paura di correre ancora il rischio di vivere; ha chiuso le porte di casa, si è barricata dentro; da mesi non esce e guarda la vita scorrere dal suo balcone. Sola con il suo grande amore: il cibo.
Non puoi costringere nessuno ad aver voglia di vivere, puoi solo amarlo ed essere lì, appena dietro l’angolo. Aspettando che Laura svolti.»
Storie come quella di Laura ne leggiamo ogni giorno…
Difficile, molto difficile, riuscire a far comprendere a queste persone che esiste non solo una seconda possibilità, ma una terza, una quarta e molte altre ancora. E che forse possiamo accettare di aver sbagliato, di aver fallito e solo allora potremmo perdonarci davvero. Pur amandoci troppo poco per riuscire a farlo.
Marina Biglia
Presidente in carica dell’Associazione Insieme Amici Obesi No Profit
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