A cura del dr. Emanuel Mian, psicologo/psicoterapeuta
Il cibo rappresenta per molti il sostituto d’elezione dei bisogni insoddisfatti, più accettato a livello sociale del fumo e considerato meno dannoso dell’alcol. Aprire il frigorifero in cerca di una consolazione (oppure svuotare la scatola dei biscotti o quella dei cioccolatini) è quindi il modo più semplice per controbilanciare ansia, frustrazioni, stress e tensioni. Del resto, si è abituati sin da piccoli a ricevere cibo come compensazione o premio. Più tardi, alla caramella o al gelato dell’infanzia si sostituisce il dolcetto che ci calma dopo un momento di rabbia, delusione o noia. In tal modo aumenta il rischio di diventare cibo-dipendenti, sfruttando ogni occasione per accumulare involontariamente calorie per lo più inutili o dannose.
Il problema è che questa modalità si scontra con una valutazione personale il più delle volte negativa del comportamento adottato. Entra in contrasto in un certo senso con un’etica alimentare, diffusa soprattutto nella società occidentale, che si manifesta con una colpevolizzazione (quasi una sorta di criminalizzazione) degli atteggiamenti alimentari. Cibi grassi, salati o dolci, tutto ciò che dà in qualche modo piacere può nascondere pericoli per la salute e la linea. Così dalla voglia si passa al peccato e dal peccato all’autocondanna, in una catena in cui ogni piacere rubato genera sensi di colpa e scarso valore di sè che squilibrano il rapporto con il cibo e rendono sempre più difficile alimentarsi in modo corretto, sereno e soprattutto, sano.
La complessa correlazione tra cibo, emozioni, corpo e autostima
Slide gentilmente concessa dal dr. Emanuel Mian
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