Obesità e rischi

La Commissione Europea classifica l’obesità come malattia cronica

Traduzione dell’articolo di Talha Burki “European Commission classifies obesity as a chronic disease” pubblicato su The Lancet Diabetology and Endocrinology, 1 giugno 2021

L’obesità fu inclusa per la prima volta nella Classificazione Internazionale delle Malattie [International Classification of Diseases (ICD)] nel 1948. La notizia è rimasta misconosciuta a lungo. Il pregiudizio che l’obesità sia una scelta di vita, di cui la persona che ne soffre è l’unica responsabile e che può essere “risolta” semplicemente esercitando la propria forza di volontà è ancora diffuso e ben radicato nella popolazione in generale, nel mondo del lavoro e perfino nei professionisti sanitari che dovrebbero prendersene cura.

Nell’arco degli ultimi 25 anni, e in particolare nell’ultima decade, c’è stato un crescente impulso verso il riconoscimento che l’obesità non è solo un fattore di rischio di altre malattie come il diabete di tipo 2 ma una malattia cronica vera e propria.

Nel 1997, ben 49 anni più tardi, l’ Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha riconosciuto l’obesità come una malattia cronica. Il primo Paese ad ottenere il riconoscimento è stato il Portogallo, seguito negli anni da pochi altri e in Italia raggiunto con l’approvazione unanime della mozione presentata in Parlamento il 13 novembre 2019: una data da considerarsi storica.

Nel 2013, l’ American Medical Association ha approvato una mozione che considera l’obesità come “una malattia con molteplici aspetti fisiopatologici”. Da allora diverse Associazioni Mediche hanno espresso pareri simili.

Il 4 marzo 2021, in occasione dell’Obesity Day, la Commissione Europea ha emanato una direttiva in cui definisce l’obesità come una malattia cronica recidivante, che a sua volta apre le porte ad altre malattie non trasmissibili, come il diabete, le malattie cardiovascolari e il cancro. Si tratta, inoltre, di una condizione di salute multiforme influenzata da fattori genetici, comportamentali, fisiologici, psicologici e sociali. La direttiva include quindi l’obesità tra le malattie croniche non trasmissibili [noncommunicable disease (NCD)].

“Considerando che in Unione Europea,  almeno il 59% della popolazione convive con una situazione di pre-obesità od obesità, le potenziali ramificazioni di questa nuova classificazione di riferimento sono enormi” sostiene Jacqueline Bowman-Busato, EU Policy Lead all’EASO (European Association for the Study of Obesity).

“La maggior parte dei Paesi, non ultimi tutti gli Stati membri dell’Unione Europea, hanno un approccio definito e la relativa legislazione per consentire di affrontare le malattie non trasmissibili in modo sistematico: dalla ricerca alla prevenzione primaria, dalla diagnosi al trattamento e alla gestione a lungo termine. L’obesità può finalmente essere guardata attraverso questo obiettivo realistico”. Bowman-Busato ha aggiunto che definire l’obesità come una malattia non trasmissibile è semplicemente il primo passo verso il pieno riconoscimento della malattia. “Una serie di lacune sulla piena attuazione del programma sono oggi molto chiare” – ha ribadito – “Molto rimane ancora da fare per progettare e fornire piani nazionali significativi per la prevenzione, la gestione e il trattamento a lungo termine dell’obesità”.

John Wass, professore di endocrinologia all’Università di Oxford, ha accolto con favore il nuovo impulso ma ha anche messo sull’avviso che se il Regno Unito adottasse una definizione simile alla Commissione Europea, ciò significherebbe pesare sul lavoro dei Medici di base, i quali scoprirebbero che da qualche parte nel Paese a un quarto dei loro pazienti è stata bruscamente diagnosticata una malattia. “Dobbiamo aiutare i medici a comprendere l’obesità e fornire loro strutture dove indirizzare i pazienti”, ha detto Wass a The Lancet Diabetes and Endocrinology. “In questo momento, c’è una vera carenza di luoghi dove le persone con obesità grave e complessa possono chiedere aiuto”. Wass sostiene l’implementazione di servizi terziari con team di medici, infermieri, psicologi ed esperti di attività motoria, collegati a Centri bariatrici, per accogliere ed offrire assistenza ai pazienti con obesità.

I responsabili politici incaricati di affrontare l’obesità si sono concentrati quasi esclusivamente sulla prevenzione. In Inghilterra, meno dell’1% dei pazienti che soddisfano i requisiti clinici per il trattamento chirurgico dell’obesità viene effettivamente sottoposto all’intervento. Definire l’obesità come una malattia aumenterebbe quasi sicuramente la presa in carico. I detrattori della tesi dell’obesità quale malattia puntano sul fatto che alcune persone possano avere un BMI superiore a 30 pur rimanendo in buona salute, prive di fattori di rischio come il pre-diabete o l’ipertensione. Francesco Rubino, titolare della Cattedra di Chirurgia Bariatrica e Metabolica al prestigioso King’s College di Londra, enfatizza l’importanza di stabilire migliori criteri diagnostici che distinguano tra i soggetti per i quali l’obesità è una condizione e quelli per i quali essa rappresenta una malattia. Raccomanda di imparare dall’approccio ad altre patologie.

“Riusciamo abbastanza bene a gestire la differenza tra depressione e depressione clinica; le persone non si aspettano che i soggetti con depressione clinica decidano semplicemente di essere felici. Questo modo di pensare manca nell’approccio all’obesità”, ha detto Rubino “Per l’obesità, abbiamo una definizione interamente basata su rigorosi limiti di Indice di Massa Corporea (BMI), che non prevedono con precisione alcuno stato di malattia o il rischio di malattie future tra diversi gruppi etnici. Abbiamo bisogno di una nuova metrica, più smart, più intelligente che comprenda che l’obesità può essere una malattia ma non è sempre una malattia.”

Rubino non concorda con chi sostiene che i pazienti ai quali venga dichiarato che l’obesità è una malattia abbiano un motivo per sottrarsi alla responsabilità personale nei confronti della propria salute. “Pensiamo al diabete tipo 2 o all’ipertensione: non si vedono persone con tali diagnosi che d’improvviso decidono di smettere di gestire la propria dieta o il proprio programma di attività motoria”, ribadisce Rubino. “Semmai, c’è stata troppa enfasi sulla colpa e sulla responsabilità della persona con obesità, anche da parte dei medici; dobbiamo allontanarci da quegli atteggiamenti, non avvicinarci a essi”. Classificare l’obesità come una malattia potrebbe aiutare a ridurre lo stigma verso il peso, offrire un solido argine contro le finte terapie dimagranti ed espandere la ricerca sui meccanismi coinvolti nell’aumento di peso. Forse ancora più importante, è ciò che corrisponde in pieno al modo in cui i pazienti concepiscono la loro situazione.

“La maggior parte delle persone con obesità pensa di avere una malattia cronica e recidivante; non appena perdono peso lo riprendono, e sappiamo che dietro ci sono ragioni fisiologiche”, ha spiegato il prof. Wass. “Sappiamo che l’appetito e il senso di sazietà sono ereditari e che fino al 70% del proprio peso è determinato geneticamente. Ci sono tutte le ragioni per trattare l’obesità come una malattia cronica e recidivante”.

 

References

Vittoria Majocchi

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