A cura della d.ssa Stefania Comai*, psicologa dello sviluppo e dell’educazione con un Master in Psicobiologia della nutrizione e del comportamento alimentare
Nell’immaginario comune, “gestire le proprie emozioni” può far pensare alla capacità di mantenere uno stato di distacco ed equilibrio, dato dall’abilità personale di tenere sotto controllo quello che si prova e di agire con lucidità, a prescindere dal proprio stato emotivo. Questo è vero solo in parte: “gestire” non significa controllare né mettere da parte le proprie emozioni, al contrario rappresenta la capacità di affrontarle, “passarci dentro”, accettarle e trarne qualcosa di utile per orientare le proprie scelte e comportamenti. Le emozioni non gestite possono determinare reazioni intense e indesiderate: uno sfogo di rabbia, un litigio, un episodio di abbuffata. Le emozioni che trovano ascolto diventano un’informazione che sostiene scelte coerenti e comportamenti intenzionali, perché intervengono a ricordarci, in fondo, ciò che per noi è importante. Da dove comincio?
Validare le proprie emozioni
Non è superfluo partire dal presupposto che le emozioni siano un’esperienza umana imprescindibile e preziosa. Molti modelli socio-culturali, come molti contesti familiari tendono a svalutare questa dimensione e riducono il vissuto emotivo a fragilità o debolezza personale: di emozioni si parla ancora molto poco e spesso con un certo imbarazzo. È importante distinguere ciò che si prova (emozione) da come si reagisce (comportamento): ci si può comportare in maniera più o meno adeguata o funzionale, ma l’emozione di per sé non è mai giusta o sbagliata e pertanto non va giudicata. Facciamo degli esempi. La tendenza a togliere spazio all’emozione emerge ad esempio quando chiediamo all’altro (tanto più ai bambini) di “non essere triste” o “non arrabbiarti” o quando ci si colpevolizza per un qualche stato d’animo o ci si identifica con esso (“dovrei smetterla di preoccuparmi”, “so che non dovrei sentirmi così”, “sono sempre nervoso”).
“Per gestire le emozioni è importante riconoscere loro dignità e non giudicarle giuste o sbagliate”
Io non so come sto
Non è sempre facile riconoscere e nominare le proprie emozioni, tanto più se si presentano insieme in maniera confusa o se sono di lieve intensità. Diversi modelli teorici hanno cercato di fare ordine per promuovere le basi di una sana alfabetizzazione emotiva: saper dare un nome a come ci si sente.
Lo psicologo Plutchik ha individuato otto principali famiglie di emozioni:
- gioia
- paura
- fiducia
- tristezza
- disgusto
- rabbia
- sorpresa
- interesse
Le emozioni si differenziano per tipologia ma anche per intensità e possono assumere diverse sfumature: si può provare fastidio o essere furiosi, sentire un lieve timore o andare nel panico. Anche emozioni meno intense possono condizionare il comportamento:
- ci si può abbuffare per alleviare una profonda delusione o
- spiluccare tutta la domenica perché ci si annoia o si è un po’ tesi al pensiero della settimana a venire.
Ampliare il proprio vocabolario emotivo può sembrare forse un semplice esercizio di retorica. In realtà saper nominare le emozioni comporta uno sforzo di ascolto, attenzione e comprensione del proprio stato emotivo e rappresenta il primo passo per una sua adeguata gestione. Studi sperimentali hanno messo in evidenza, tra l’altro, come verbalizzare le proprie emozioni, dire letteralmente a se stessi o ad altri “io mi sento…”, può di per sé contribuire a ridurne l’impatto e l’intensità.
“Per gestire le emozioni è importante imparare a nominarle e riconoscerne le caratteristiche (piacevole/spiacevole, grado d’intensità)”
Le emozioni sono nel corpo
L’emozione esprime un processo che avviene nel nostro corpo, un cambiamento di stato che può seguire un evento esterno o interno (un ricordo o un pensiero). L’etimologia stessa (dal latino emovère, ovvero portare fuori, smuovere da) implica il concetto di cambiamento rispetto a una condizione relativamente statica. L’esperienza emotiva si accompagna a un articolato processo fisiologico di reazioni biochimiche, funzionali a porgere attenzione a ciò che sta accadendo (“sta succedendo qualcosa”), valutarne il significato e il possibile impatto (“cosa mi sta succedendo?”), individuare la risposta più opportuna da adottare (“cosa posso fare?”).
Ogni stato emotivo ha segnali corporei caratteristici (battito cardiaco, tipo di respirazione, sudore, colorito, tensione muscolare, ecc.) ed espressioni del corpo e del volto riconoscibili nell’uomo ed in altre specie animali.
Intercettare questi segnali nel proprio corpo consente di sintonizzarsi con sé stessi e con i propri bisogni: come mi sento? Perché? Cosa posso fare al riguardo? Chi prova disagio in relazione al corpo può essere meno propenso a porgere attenzione ai suoi segnali, perché il solo sguardo può generare giudizio e senso di colpa o vergogna.
Ricostruire la possibilità di questo contatto è tuttavia un passaggio fondamentale per prendersi cura di sé ed evitare di cadere in automatismi o reazioni impulsive. Inoltre, identificare le emozioni anche nel corpo degli altri permette di comprendere o anticipare il loro comportamento, come anche di essere empatici e costruire relazioni efficaci. Le emozioni non sono forze estranee che dal nulla ci invadono o attraversano ma nascono e si riverberano nel corpo, come molte espressioni idiomatiche testimoniano: avere un peso sullo stomaco, un nodo alla gola, provare una stretta al cuore, perdere la testa sono solo alcuni esempi.
“Per gestire le emozioni è importante riconoscere i segnali che generano nel corpo e che consentono di identificarle”.
Le emozioni servono a qualcosa
Viene forse spontaneo ritenere che le emozioni siano un aspetto “collaterale” dell’esperienza, qualcosa di non necessario di per sé, che tutt’al più aggiunge un certo tono o sapore alla vita. O ancora, le emozioni sono spesso vissute come un ostacolo e un’interferenza che impedisce di concentrarsi, di mantenere i propri obiettivi, di dire ciò che si pensa, di fare scelte sagge.
A cosa servono quindi le emozioni?
A livello evolutivo, emozioni come la paura ci consentono di attivare prontamente risposte salvavita (per es. evitare un ostacolo) o di alzare la soglia di attenzione in una situazione di rischio potenziale. La rabbia può predisporre a reagire in risposta a una minaccia o un’invasione che si interpone nella realizzazione di un nostro bisogno. La tristezza può indurre a un temporaneo raccoglimento e risparmio di energie, come anche a segnalare agli altri un bisogno di vicinanza e conforto. La gioia contribuisce a identificare ciò che per noi è importante, oltre a motivarci verso la costruzione di legami sociali.
In altre parole, le emozioni sono messaggi, a cui possono essere attribuite tre principali funzioni:
- adattiva: suggeriscono qual è la risposta più adeguata in una situazione (per es: il messaggio della paura è “fai attenzione!”);
- sociale: comunicano il nostro/altrui stato d’animo, consentendo di comprendere e prevedere il comportamento che può conseguirne (per es: il messaggio della tristezza può essere “ho bisogno di un momento per me” o “stammi vicino”);
- motivazionale: alimentano l’interesse a portare avanti i propri progetti (per es: il messaggio della gioia può essere “è una cosa che mi piace e in cui credo, avanti tutta!”).
“Per gestire le emozioni è importante riconoscerne il significato e comprendere quale messaggio ci trasmettono”.
Le emozioni si possono attraversare
Le emozioni sono informazioni utili ma non per questo necessariamente piacevoli. Si è spesso più propensi a metterle da parte e trascurarne il peso, come anche a evitarne l’impatto perché non c’è forse istinto più umano del volersi difendere dalla sofferenza. Nel tempo si possono consolidare modalità di difesa disfunzionali: il ricorso al cibo può rappresentare ad esempio una strategia per alleviare o evitare uno stato emotivo vissuto come insostenibile.
La neurofisiologia, come anche l’esperienza quotidiana, possono testimoniare tuttavia come un’emozione evitata o temporaneamente “tamponata”, può riproporsi in modo più acuto ed insistente, fintanto da indurci a re-agire senza possibilità di riflettere o mediare. Uno stato emotivo acuto ed intenso può mandare letteralmente in blackout le funzioni cognitive preposte alla regolazione del comportamento ed alla gestione degli impulsi. Chi vive episodi di abbuffate conosce bene la sensazione di perdita di controllo ed il percepito di impotenza sulle proprie azioni.
Per prevenire che questo avvenga non esistono formule magiche né soluzioni indolori. Esiste però la possibilità di imparare a riconoscere le cose per come sono e per come ci fanno stare, accettando le emozioni come potenziali risorse ed alleate: ricordano che ci siamo, che qualcosa per noi è importante, che abbiamo dei bisogni, che vogliamo agire in coerenza con i nostri valori, che cerchiamo un legame, e chissà cos’altro. Possiamo imparare ad esprimerci per non ritrovarci a sfogare le nostre emozioni. Gestire le emozioni può essere un processo impegnativo che richiede fiducia in se stessi ed esercizio. Detto questo, basta cominciare con un buon riscaldamento.
Accogliere le emozioni
- Fermati, respira, ascolta quello che c’è senza giudicarlo, fingere o evitarlo
Nominare le emozioni
- Come si chiama l’emozione che provi?
- Che caratteristiche ha?
Riconoscere le emozioni nel corpo
- Dove la senti?
- Come si esprime nel corpo?
Comprendere le emozioni
- Quale messaggio trasmette?
- Cosa dice di te?
- A cosa può esserti utile?
Usare le emozioni
- Che cosa senti che è importante?
- Cosa puoi fare a riguardo?
References
– Goleman D – Intelligenza emotiva. Che cos’è e perché può renderci felici. BUR Biblioteca Univ. Rizzoli, 2011
– Safer DL et al – L’alimentazione emotiva. La soluzione DBT per rompere il cerchio delle abbuffate. Raffaello Cortina Editore, 2019
– Gianantonio M – Paura di sentire. Come gestire il “pericolo” delle emozioni. Edizioni Erickson, 2012
– Plutchik R – Psicologia e biologia delle emozioni. Bollati Boringhieri, 1995
– Torre JB, Lieberman MD – Putting feelings into words: affect labeling as implicit emotion regulation. Emotion Review Vol. 10 No. 2 (April 2018)
– Lieberman MD. Affect labeling in the age of social media. Nat Hum Behav 2019 Jan;3(1)
* La d.ssa Stefania Comai è psicologa dello sviluppo e dell’educazione con un Master in Psicobiologia della nutrizione e del comportamento alimentare (Università di Tor Vergata, Campus Bio-Medico di Roma). Ha conseguito una seconda laura specialistica in Filosofia morale e bioetica presso l’Università degli Studi di Bologna. Si è formata nell’ambito dell’intervento psicologico in diabetologia e in chirurgia bariatrica. Ha intrapreso la specializzazione in psicoterapia ad indirizzo Familiare Relazionale presso l’Istituto di Terapia Familiare di Bologna. Segue inoltre il percorso di promotore delle life skills presso l’Associazione Life Skills Italia. Esercita la libera professione a Bologna.
Per maggiori informazioni: https://www.stefaniacomai.com/