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La prestigiosa testata “The Economist”, in occasione dell’Obesity Day 2016, ha condotto uno studio per valutare la situazione socio-economica dell’obesità in Italia e le possibili strategie da attuare per contrastare la progressiva crescita di questa patologia. Secondo l’indagine, l’Italia mostra dati contrastanti. Se da un lato, il numero di adulti obesi o in sovrappeso risulta inferiore alla media europea, dall’altro –l’obesità infantile ha già raggiunto livelli critici, sottolineando l’urgenza di un intervento tempestivo delle istituzioni che possa rallentare l’incremento dei costi futuri associati all’obesità: i bambini obesi di oggi saranno gli adulti obesi di domani. Gli Esperti dell’Economist sottolineano a chiare lettere come l’Italia non abbia ancora adottato una strategia multidisciplinare a riguardo, che integri in maniera comprensiva prevenzione, gestione e trattamento della patologia. Pertanto esiste ancora un ampio margine di miglioramento da colmare nelle politiche finalizzate a combattere l’obesità in Italia. #ètempodiagire
L’incremento dei costi per il Sistema Sanitario Nazionale
Le stime più recenti dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) relative al 2015 riportano un dato percentuale complessivo di persone obese ed in sovrappeso pari al 48%, con una proiezione per il 2025 pari al 52%. Ma il vero pericolo sono gli alti livelli di obesità infantile in Italia, i cui costi economici per l’SSN sono destinati ad aumentare. Più di un terzo dei bambini italiani (il 36% dei maschi e il 34% delle femmine) è in sovrappeso o obeso, rispetto a una media OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico di cui fanno parte 35 membri attivi) che arriva al 23% per i bambini e al 21% per le bambine. Pertanto i costi dell’obesità potrebbero aumentare considerevolmente. Attualmente i costi economici associati all’ obesità per il sistema sanitario sono stimati a 9 miliardi di euro (9,9 miliardi di US$), a dispetto del perdurante regime di austerità che impegna il paese.
L’obesità contribuisce inoltre all’insorgenza di patologie croniche correlate, in particolare il diabete di tipo 2, che costituisce una delle patologie con l’impatto economico più significativo sul Sistema Sanitario Nazionale. L’OCSE stima che una strategia complessiva finalizzata a prevenire l’insorgenza di malattie croniche connesse all’obesità, come il diabete di tipo 2 e l’ipertensione arteriosa, permetterebbe di evitare ogni anno 75.000 decessi in Italia rispetto ai 155.000 in Giappone, 70.000 in Inghilterra, 55.000 in Messico e 40.000 in Canada.
Si tratterebbe di un costo di circa 22 US$ pro capite in Italia (rispetto ai 12 US$ pro capite in Messico, ai 19 US$ in Giappone e in Inghilterra e ai 32 US$ in Canada), mentre il costo per anno di vita guadagnato attraverso la prevenzione è poco meno di 20.000 US$ 7.
L’importanza di superare le barriere strutturali e le differenze regionali
Per affrontare il problema dell’obesità in Italia occorre fronteggiare difficoltà strutturali di notevole entità. “Siamo di fronte a una malattia molto complessa, ancora più complicata del diabete e dell’ipertensione, e abbiamo bisogno di attivare una rete [molto forte] per affrontarla”, ha affermato Roberto Vettor, Professore di Medicina Interna e Responsabile del Dipartimento di Medicina presso l’Università di Padova, nonché Direttore del Centro per lo studio e il trattamento integrato dell’obesità.
“Manca un sistema di strutture organizzate per far fronte al problema. Il sistema di decentralizzazione del Servizio Sanitario Italiano dà luogo, a livello regionale, a notevoli disparità di accesso ai servizi dedicati all’obesità. “C’è un chiaro divario tra Nord e Sud “, afferma Paolo Sbraccia, Presidente della Società Italiana dell’Obesità (SIO) e Professore di Medicina interna presso l’Università Tor Vergata di Roma.
A differenza di altri Paesi europei, gli esperti italiani sono cautamente ottimisti sul fatto che le istituzioni siano pronte ad accettare l’approccio secondo il quale l’obesità è una malattia multifattoriale e non semplicemente il risultato di stili di vita inappropriati.
Nel maggio 2016, la SIO ha avanzato con successo una richiesta al Senato della Repubblica per promuovere una petizione che riconosca l’obesità come malattia. Se accolta – sostiene il Professor Sbraccia – questo potrebbe essere il primo passo verso il riconoscimento giuridico della patologia, consentendo al servizio sanitario di definire un approccio organico al suo trattamento.
L’American Medical Association ha classificato l’obesità come malattia nel giugno 2013. Nello studio dell’EIU dal titolo “Confronting obesity in Europe”, il Professor Francesco Rubino, docente di chirurgia bariatrica e metabolica presso il King’s College di Londra, sostiene che le istituzioni hanno difficoltà ad accettare l’obesità come condizione patologica, in quanto è profondamente diffusa la convinzione che sia facilmente reversibile.
Sia la prevenzione che il trattamento sono stati parte dell’approccio adottato dall’Italia per affrontare l’obesità. Sebbene l’Italia non disponga di una strategia specifica contro la patologia, questa è stata espressamente menzionata nel Piano Nazionale di prevenzione 2010-12, incentrato sulla prevenzione delle malattie non trasmissibili e sulla promozione di stili di vita sani. Fra le misure incluse nel piano: •migliorare l’alimentazione nelle mense scolastiche e dei luoghi di lavoro, •incoraggiare l’attività fisica nelle scuole e • incentivare il consumo più diffuso di frutta e verdura.
Combattere i luoghi comuni
“La maggior parte delle persone crede che sia un problema che si possa affrontare o contrastare senza alcun supporto esterno e che sia più un problema di forza di volontà o di pigrizia”, osserva il Professor Sbraccia. “Ritengo che negli ultimi 15 anni, come è accaduto in molti Paesi, sebbene le campagne di sensibilizzazione non abbiano realmente ridotto il numero [di persone obese], abbiano però contribuito a diffondere la conoscenza del problema fra la popolazione italiana”.
Il Servizio Sanitario Nazionale ha adottato delle linee guida sul trattamento dell’obesità, coprendo il costo dei farmaci dimagranti e rendendoli disponibili per le persone che presentano un Indice di Massa Corporea (IMC o BMI) superiore a 30 (o superiore a 28 in presenza di comorbilità) nei casi in cui i cambiamenti nello stile di vita e il consulto clinico siano risultati inefficaci.
Nonostante il riconoscimento della patologia, l’assenza di una specifica strategia e le differenze nell’ offerta terapeutica nel Paese contribuiscono ad un accesso non uniforme alle cure, secondo gli intervistati in questo studio.
Le nuove linee della chirurgia bariatrica a garanzia di un più omogeneo accesso alle cure in tutto il Paese
La chirurgia bariatrica è indicata per i soggetti adulti con un Indice di Massa Corporea (IMC) superiore a 40 (o superiore a 35 in presenza di comorbilità) nei casi in cui i precedenti tentativi di perdita di peso non siano andati a buon fine.
La Società Italiana di Chirurgia dell’Obesità (SICOB), in occasione del Congresso Congiunto delle società chirurgiche italiane (Settembre 2016) ha presentato le nuove linee guida chirurgiche, particolarmente attese, che dovrebbero sostituire le raccomandazioni vigenti, introdotte nel lontano 2008. Esse forniscono informazioni sulle procedure bariatriche più recenti e su come identificare l’intervento chirurgico più appropriato per ogni paziente e includono le nuove conoscenze raccolte negli ultimi anni.
“Ritengo che sia importante conoscere le nuove procedure e ricevere una corretta indicazione per la selezione dei pazienti per i quali tali procedure sono appropriate” ha affermato il prof. Foschi, Coordinatore e co-autore delle linee guida e Direttore della Scuola di Chirurgia presso l’Università di Milano.
Le Linee Guida SICOB 2016 ribadiscono inoltre l’importanza di garantire un accesso alle cure uniforme in tutto il Paese, ha aggiunto, sottolineando che ogni anno in Italia, solo 10.000 pazienti obesi si sottopongono a intervento chirurgico, rispetto a circa il milione di pazienti, che potrebbe essere potenzialmente eleggibile.
Differenze regionali che creano un accesso non uniforme nel Paese
Nonostante il riconoscimento della patologia, l’assenza di una specifica strategia e le differenze nell’ offerta terapeutica nel Paese contribuiscono ad un accesso alle cure a macchia di leopardo, secondo gli intervistati in questo studio.
Da un lato, persistono differenze socioeconomiche tra Nord e Sud del Paese che incidono in modo diverso da Regione a Regione. Inoltre, la minore presenza di centri sportivi nelle Regioni meridionali fa sì che i bambini svolgano minore attività fisica rispetto agli altri Paesi Europei.
Inoltre, la tradizionale enfasi sul cibo si è trasformata in un elemento dannoso da quando le diete sono diventate più caloriche; questo fenomeno è alla base dell’obesità infantile. “Tipicamente una madre si preoccupa se il figlio è magro, ma è felice quando ha una corporatura robusta”, sostiene il Professor Sbraccia.
Ma ancora più importante, secondo quanto affermato dagli intervistati, è l’assenza di reti integrate per affrontare l’obesità e i problemi ad essa associati. Secondo un documento del Ministero della Salute del 2011, un modello di assistenza sanitaria adeguato alle caratteristiche dei pazienti obesi richiede centri altamente specializzati che cooperino strettamente con altre strutture sanitarie locali, con i medici di medicina generale (MMG), con i pediatri e con le strutture ospedaliere locali che fanno loro riferimento.
Eppure il numero dei centri multidisciplinari per l’obesità in Italia continua ad attestarsi ad un livello basso: circa 20 unità sparse in modo non uniforme sull’intero territorio nazionale. Nelle aree in cui non sono presenti, i pazienti obesi sono generalmente costretti a fare affidamento ai medici di medicina generale e ai centri di dietologia e nutrizione locali i cui servizi non sempre sono di qualità.
“Se la rete funzionasse in modo davvero ottimale, potrebbero essere sufficienti anche 20 centri, a condizione che siano ben distribuiti e ben collegati con i centri più piccoli e che un modello “Hub & Spoke” funzioni in maniera adeguata”, sostiene il Professor Sbraccia. “Ma oggi la rete non è ben distribuita e quindi il modello “Hub & Spoke” non può funzionare”.
Nel 2012, il Professor Sbraccia ha preparato alcune evidenze per il Ministero della Salute a sostegno della creazione di una gamma di servizi per il trattamento dell’obesità nei maggiori ospedali del Paese. “Purtroppo, nell’attuale organizzazione del Sistema Sanitario Nazionale, questo documento è destinato alle regioni e le regioni hanno l’autonomia di adottarlo o meno”, afferma.
Il Professor Vettor ha osservato che la Regione Veneto, che comprende le Province di Verona e Padova, è stata una delle Regioni leader, con un “percorso clinico molto controllato” che collega medici, pediatri e altri specialisti ai due Hub cittadini principali. La rete collega tutte le strutture che si occupano di obesità, dalla prevenzione al trattamento e alla cura, passando per l’endocrinologia, la nutrizione e la chirurgia, comprendendo anche il trattamento post-chirurgico e la riabilitazione sino alla guarigione (rete multidisciplinare).
Sono in atto tentativi per creare reti integrate in altre tre regioni settentrionali. ” Ma – riconosce il Professor Vettor – rappresentiamo quasi un’eccezione rispetto alla situazione italiana”.
Al Sud, il Professor Vettor spiega che, nonostante l’esistenza di centri di eccellenza riconosciuti in regioni come la Sicilia, non esiste un approccio sistematico al problema. Inoltre è improbabile che le Regioni che non adottano percorsi di trattamento multidisciplinari possano ottenere risultati soddisfacenti da una malattia che mostra diversi “fenotipi”, a partire dai pazienti in sovrappeso che necessitano di interventi intensivi in termini di dieta e attività fisica fino ad arrivare ai pazienti obesi che potrebbero essere candidati per l’intervento chirurgico.
L’approccio multidisciplinare rappresenta il gold standard in termini di efficacia
Il Professor Sbraccia e il Professor Vettor concordano sul fatto che la lotta contro l’obesità in Italia richiederà che le istituzioni impieghino l’intera gamma di strumenti a loro disposizione, includendo sia la prevenzione che il trattamento. In primo luogo, affermano che è di vitale importanza che le istituzioni riconoscano l’obesità come malattia, al fine di porre le basi per programmi nazionali, definendo un rimborso adeguato per i trattamenti. Secondo il Professor Sbraccia, i legislatori potrebbero prendere in considerazione nuove imposte e normative sui livelli di zucchero negli alimenti, disposizioni affinché le scuole includano più ore di attività fisica e un migliore regime di rimborso per i nuovi farmaci anti-obesità.
Nel frattempo, gli intervistati sostengono che coloro che trattano i pazienti più gravemente obesi dovrebbero riconsiderare i propri approcci terapeutici. Nel nostro rapporto europeo, il Professor Rubino sostiene la necessità di andare oltre l’obiettivo dell’IMC. “Ritengo che le restrizioni imposte basandosi sull’IMC non siano al servizio dei pazienti e non siano al servizio dei sistemi di assistenza sanitaria”. Il Professor Vettor ha ripreso questo concetto, asserendo che sarebbe necessario compiere uno sforzo per passare da una considerazione “quantitativa” della malattia, come rappresenta il dato dell’IMC, a una considerazione maggiormente “qualitativa”, che abbracci gli aspetti metabolici e cardiovascolari o, tra gli altri fattori, la disabilità. “Dobbiamo far sì che l’obesità venga riconosciuta come una malattia costituita da diverse fasi, ognuna delle quali deve essere trattata in modo diverso, fermo restando che tutti questi interventi, ossia dieta, attività fisica, terapia farmacologica, opzione chirurgica, sono equivalenti dal punto di vista della dignità terapeutica”.